martedì 24 gennaio 2012

capitolo inedito 1 (in ricordo di Enrico)


10. Il mestiere più bello del mondo

            Una sera d'inizio estate, a Ravenna. L’aria è tiepida, dopo la pioggia. Il Paladeandrè è gremito di gente, per un concerto di Riccardo Muti. Sono uno degli invitati. Il sindaco di Roma, Walter Veltroni, (ospite d’onore della serata) mi saluta come se mi conoscesse da sempre e mi chiede, allungandomi la mano: "Non è il più bel mestiere del mondo, il nostro?" Sottinteso: certo che lo è! Resto col braccio sbilanciato in avanti e cerco di sorridere pensando a quale risposta dargli. Lui sta già parlando con altri. E io sto lì, qualche secondo, come un baccalà. Confesso che non ci avevo pensato. Il più bel mestiere del mondo è saper scrivere romanzi di successo, comporre musica, dipingere in maniera innovativa, forse andare per mare. Quando facevo il sindacalista ho pensato che era un bel mestiere: perché difendevo i diritti delle persone deboli e litigavo con uomini potenti, ottenendo qualche risultato. E in più riuscivo a organizzare il mio tempo. Da quando ho iniziato a fare il sindaco non ho mai avuto simili entusiasmi. Sarà colpa mia? Che abbia ragione il sindaco della Capitale e io in tanti anni non me ne sono mai accorto? Comunque sia, da quella sera di Ravenna ci ho molto rimuginato e queste pagine sono una specie di ripasso alla moviola della mia esperienza. Con molti tagli, per non annoiare.

      A metà del concerto, quella sera a Ravenna, Veltroni si è girato e mi ha detto d’improvviso: “Conosci ‘Gli Immortali’ di Pestelli? se ti piace la musica classica, leggilo”. Io sono prevenuto sui libri che spiegano come farsi una discoteca di capolavori, anche perché non mi va di ricominciare da capo dopo aver accumulato almeno un migliaio di Cd seguendo i miei gusti e i suggerimenti di “Amadeus”, la mia rivista di musica preferita. Però ho seguito il consiglio del sindaco di Roma e mi sono trovato bene. Scoprendo tra l’altro che nella mia discoteca ci sono molti degli “immortali” di Pestelli e altri che meriterebbero di farne parte. Anche per questo la serata di Ravenna non è stata inutile.

Un bel mestiere… Intanto c’è una grande differenza tra città grandi e città più piccole. Il sindaco di Roma ha sicuramente più di me l’onere di sottoporsi ai riflettori locali e nazionali, qualsiasi cosa faccia o dica. Anche quello di Milano. Già i sindaci di Torino e di Venezia hanno una audience nazionale per le loro caratteristiche personali più che per l’importanza delle loro città. Negli altri Comuni di grande dimensione (ammesso che in Italia ci siano davvero Comuni di grande dimensione, a parte Roma) il sindaco è più rappresentante dell’istituzione che non del popolo. Intendo dire che il suo rapporto con le persone è mediato da molte strutture del Comune, da apparati tecnici e politici di filtro e di sicurezza, dalla formalità delle cerimonie ufficiali. Quando incontra i cittadini è perché ha deciso di farlo. Nelle molte migliaia di Comuni piccoli e piccolissimi è il contrario: sono i cittadini che decidono di incontrare il loro sindaco e lui non può sottrarsi, né di giorno né di notte. Lì il sindaco è davvero il rappresentante dei suoi elettori, a tempo pieno: responsabile di tutto ciò che viene fatto e soprattutto di ciò che non viene fatto (che è molto di più, naturalmente). Se aggiungiamo che al cumulo di aspettative e di responsabilità di solito si accompagna la scarsità delle risorse e dei poteri reali (per non dire della misera indennità di funzione), penso che la condizione peggiore di lavoro da sindaco si possa avere in un Comune di piccole dimensioni. E se Veltroni la domanda l’avesse fatta al sindaco di un Comune di duemila abitanti forse questi avrebbe avuto la sensazione di essere preso in giro. Mentre sono proprio loro, i sindaci dei piccoli Comuni che tengono unite e vive le loro comunità, l’unico vero il tessuto connettivo dell’unità nazionale.
            Nelle città come la mia (i capoluoghi di Provincia) la situazione è intermedia. Non si vive troppo chiusi nei palazzi istituzionali, ma non si è alla mercè delle sollecitazioni quotidiane di tutti. Pochi sanno dove abita il sindaco, quelli che lo sanno non hanno nessuna voglia di parlargli. Naturalmente i rapporti dipendono molto dall’indole del sindaco e dei suoi cittadini. Dalle opinioni, dai giudizi e dai pregiudizi di ciascuno.

Alle volte i miei cittadini sono molto comprensivi e generosi: nel senso che sanno tollerare e anche perdonare (o dimenticare). Alle volte sono ipercritici senza motivo: prima di conoscre la realtà. Un po’ mossi dal pregiudizio: o dall'istinto di conservazione che aleggia tra le nebbie della pianura. E di diffidenza verso il nuovo. Uno scetticismo quasi siciliano che non ha riscontro in altri lati del loro carattere. Sulla vicenda della piazza sbriciolata direi che gli elettori mi hanno amnistiato: nel senso che mi hanno riconfermato dopo appena un anno dal disastro. Forse mi hanno condannato con la condizionale (forse hanno capito che un incidente può succedere: anche quando si aggiusta il bagno di casa). Su altre cose, magari minori, circolano leggende e giudizi negativi fondati sulle chiacchiere. Gli consentirei volentieri più severità sui problemi veri e meno pregiudizi sul resto. È vero che siamo nel campo dei piccoli numeri: ma sono pregiudizi fastidiosi.
Ricordo una splendida mattina primaverile dell'anno scorso. Stavo inaugurando, a piedi, con la giacca su una spalla, assieme a un gruppo di cittadini contenti come me, un percorso pedonale e ciclabile cui tenevo molto: un progetto realizzato (con qualche anno di ritardo) esattamente come l'avevo pensato: “Bravi, cosa rara!”
Racconto dall'inizio.
C'è un luogo magico nella mia città. È un'area di una decina di ettari coltivati a ortaggi che sta tra la vecchia Certosa e il Cimitero israelita: ben all'interno del perimetro delle mura quattrocentesche. Si tratta di un'area vincolata, nel senso che non vi si può costruire nulla di nuovo (per fortuna): di proprietà del Comune. È l'ultimo residuo di quella estensione di orti che occupavano tutta la zona a Nord di Via dei Prioni, nell' impianto urbanistico di Biagio Rossetti. Oggi ad entrare in quegli orti, attraverso lo stretto passaggio di Via delle Erbe, sembra davvero di attraversare una finestra spazio-temporale: un paesaggio d'altri tempi, e d'altri luoghi più lontani: quasi toscani, se non fosse tutto costantemente pianeggiante. Con i salici e gli alberi che nelle nostre campagne non ci sono più da almeno un secolo, sacrificati alla logica delle coltivazioni estensive a basso fusto. Appena entrati si imbocca un sentiero ghiaiato che costeggia, a destra, un muro di cinta alto un paio di metri (con in cima "cocci aguzzi di bottiglia" come nella poesia) e poi si procede in mezzo ai campi, dopo aver superato una casupola in legno in cui quelli che coltivano gli orti (in convenzione con il Comune) vendono prodotti biologici.  Si procede per qualche centinaio di metri in mezzo agli alberi da frutta e qualche animale che pascola a ridosso della selva che e' cresciuta ai piedi delle mura. È un luogo magnifico e poco conosciuto, per quanto sia a 15 minuti a piedi dal castello.
Sono nato poco lontano da lì e quando sono diventato Sindaco ho pensato che sarebbe stato bello aprire e far conoscere a tutti quegli spazi: costruire un percorso assolutamente pedonale e ciclistico che lo collegasse al grande anello verde delle mura restaurate dall'amministrazione precedente con i fondi Fio. Non mi pareva complicato. Si trattava di disegnare un tracciato di poco più di un chilometro: un sentiero ghiaiato (in realtà il prodotto si chiama "stabilizzato") largo un paio di metri, un varco nel muro per poter sbucare su Via Vigne (concordato con la sovrintendenza), una curva a destra davanti alla casa colonica che c'è in fondo alla strada e un ponticello per superare il fossato e salire sulle mura. Essendo quasi tutto di proprietà pubblica doveva essere abbastanza semplice da realizzare: bisognava solo fare una nuova convenzione con i bio-coltivatori, acquistare una striscia di terreno per far passare la pista nell'ultimo tratto, costruire il ponte. Ne ho parlato con i dirigenti del settore lavori pubblici e urbanistica nell'estate del '99. Poi non li ho più sollecitati: perché non volevo che quel progetto diventasse una priorità solo perché l'avevo chiesto io. Alla fine tutto è stato realizzato bene, anche se con tempi molto più lunghi del necessario: 4 anni invece che (a dir molto) 10 mesi. In seguito ho imparato ad essere meno attento alla forma: altrimenti passano priorità e tempi decisi da non si sa chi.
Quella mattina stavo appunto inaugurando il percorso: e alla fine è il taglio del nastro (anche questo tricolore) ciò che conta. Tutto quel che è venuto prima si dimentica con il fruscio della stoffa tagliata e l'applauso che segue.

Sono proprio di buon umore e ho deciso di farmi tutto il sentiero a piedi, assieme alle persone (quasi tutti anziani) che sono venute a vedere. Guardo i particolari e leggo i cartelli che una cooperativa di steineriani (che collabora al progetto) ha  messo sul  percorso per spiegarne il senso. Ma non c’è molto da spiegare: quella pista è una meraviglia fuori del tempo che dura nel tempo. Ci inoltriamo per il sentiero, sbuchiamo per la porta ricavata nel muro in Via delle Vigne, giriamo verso l'azienda agricola che c'è in fondo (segnalo all’ingegnere capo che c'è un cassonetto dei rifiuti al posto sbagliato: perché interrompe la vista del sentiero che attraversa un portale di pietra tra gli alberi), giriamo a destra, superiamo il ponticello di legno e saliamo verso le mura. Ci fermiamo soddisfatti a guardare gli spazi verde scuro del "cimitero degli ebrei", dove è sepolto Giorgio Bassani e dove abbiamo collocato, da poco (e a spese del Comune), il monumento funebre che ha costruito Arnaldo Pomodoro. Guardiamo la sagoma di San Cristoforo alla Certosa e più a sinistra la cupola cilindrica di San Giovanni. Fuori, oltre le mura, la campagna che si è salvata dall'espansione urbana decisa (imprudentemente) con il Piano regolatore del '95. Tutto sembra perfetto e  idilliaco: ma l'agguato è già in moto.
Mentre me ne sto lì tranquillo a chiacchierare con i tecnici e congratularmi con loro (felice anche di non dover fare nessun discorso ufficiale) una signora in bicicletta si stacca dal gruppo e mi viene vicino.
- Sindaco, lei ogni tanto dovrebbe venire anche a vedere com'è la situazione a Borgo Punta... non sempre le cose sono così belle.
- In che senso? quale situazione? rispondo senza capire.
- La nostra situazione. Viviamo ormai in condizioni penose...
- A Borgo Punta? cosa c'è di penoso a Borgo Punta, scusi?
I miei si allargano e lasciano avvicinare la signora, curiosi di capire e di vedere anche loro come finisce.
- C’è che non riusciamo più a uscire di casa dal traffico. E non riusciamo più ad entrare in città perché tutti i giorni cambiate senso di marcia nelle vie, per colpa di quella maledetta rotatoria... Mia figlia non sa più come fare per andare a lavorare la mattina.
- La rotatoria serve ad eliminare le code che si formavano prima, signora. Quando sarà finita vedrà che tutto si sistema.
Un geometra del Comune decide di intervenire:
- Guardi signora che tutti i giorni il giornale pubblica con chiarezza i percorsi possibili e le eventuali variazioni.
Ma la signora incalza e vuota il sacco:
- Venga a vedere con i suoi occhi, Sindaco. Non pretendo che lei possa conoscere la situazione... non vivendo in città è chiaro che non la conosce. Venga a vedere!
Io spero di non aver capito bene:
- Come scusi: dove pensa che io viva?
La signora continua (credo in buona fede):
- Ma, non abita a Bologna lei?
Le altre persone la guardano senza parlare e poi guardano me in attesa della risposta. La mia rabbia cresce:
- Io, a Bologna? Io sono nato in Piazza Ariostea, cara signora: da una famiglia che prima abitava proprio a Borgo Punta, che allora si diceva "fuori San Giovanni", come forse lei non sa.
La signora cerca di giustificarsi:
- Mi hanno detto che lei vive a Bologna...
- Io vivo a Bologna? e magari il Sindaco di Bologna vive a Modena e quello di Modena a Milano e quello di Milano a Genova? A lei sembra una cosa possibile? e normale?
Io mi arrabbio sempre più, ma la signora non capisce perché: come se pensasse che in fondo potrebbe essere davvero normale.
 - Io abito in città, signora e ho sempre abitato qui da quando sono nato. Se vuole può dire all'ingegnere capo qual'è il suo problema. La saluto.
Mi giro e me ne vado verso il bastione di Porta San Giovanni, pensando che sono stato troppo scorbutico perché lei ripeteva solo una cosa che aveva sentito dire. Ma siccome l'avrei voluta strozzare anche essere scorbutico era un esempio di moderazione.
Ecco: vi ho detto un mio punto debole. Se volete potete approfittarne: non sopporto che si dica in giro che vengo da fuori, che non sono nato qui e si sottintenda che non conosco a sufficienza la mia città. È un pregiudizio che mi ossessiona fin dai giorni della prima campagna elettorale, quando un candidato della Lega Nord (che non prese quasi nessun voto) in un dibattito pubblico tra candidati disse: "Inutile pretendere risposte precise da lui: in fondo e' un extracomunitario!" Io mi girai di scatto: "Spero lei stia scherzando", gli chiesi, scandalizzato (più che offeso) dal livello del dibattito. Lui mi guardò stupito (anche lui sembrava in buona fede): "Perché, non vieni da fuori del Comune tu?"
Da allora molte volte ho sentito ripetere la stessa affermazione: ora in maniera più cattiva (a sottintendere: "non è dei nostri"), ora in maniera più ingenua, come forse quella signora di Borgo Punta. E ogni tanto anche ai miei familiari succede di arrabbiarsi e dover spiegare che non è vero: che non è vero che il giovedì sera me ne torno a Roma, che non è vero che abito a Milano, che non è vero che non conosco più la città per aver lavorato fuori molti anni, che non ho mai cambiato residenza, che non è vero che non sono mai in ufficio e via via le altre sciocchezze che resistono, sempre uguali, nel tempo. Così mia nipote una sera ha litigato con dei suoi amici a cena che si dicevano certi che io abitavo a Roma e mia sorella lo stesso con altri che sostenevano che avevo lasciato la città negli anni ’70 per andare all'Università e non ero più tornato.
Mi sono persino dato al dialetto, per cercare di fugare questi pregiudizi. E per un paio d'anni ho partecipato, fuori concorso, al premio "Mario Roffi" di poesia dialettale, approfittando di quello che ho imparato dai miei nonni e che ancora ricordo. E lo faccio con grande piacere (sia detto fra parentesi: anche con qualche successo di pubblico, almeno in famiglia), perché ho scoperto una certa vena poetica dialettale che in italiano non mi viene per nulla. Ma non c'è nulla da fare, nemmeno parlare in dialetto serve. Qualcuno, ogni tanto, torna fuori con la storia che abito altrove e che vengo da fuori.
L'ho detto al mio amico sindaco di Bologna, quando, in campagna elettorale gli rinfacciavano di non essere bolognese e lui davvero non lo è. "Fregatene: tanto anche di me dicono la stessa cosa, nella mia città, malgrado non sia vero". Lui si è messo d'impegno a imparare la storia della città e i nomi  delle vie, anche le più piccole, per essere più bolognese dei bolognesi.

Se devo fare l'elenco dei pregiudizi (o delle critiche che mi fanno e che considero immotivate) bisogna che dica anche di un'altra etichetta che mi perseguita, secondo me immeritatamente. Quella di essere uno snob. O troppo snob per le abitudini della città. O di mostrare con l' espressione del viso una certa "puzza sotto il naso" nei confronti dei miei interlocutori.  Oppure, come ha dichiarato in Consiglio comunale una consigliera dei Ds, di essere un “radical shick”. Cosa rispondere a queste "accuse" (sapendo che contro il pregiudizio non c'è quasi niente da fare)? Ho un argomento banale ma molto vero da addurre a mia difesa: ho passato venti anni della mia vita a lavorare fianco a fianco di operai del Nord e del Sud: alcuni che non parlavano italiano, altri così raffinati da apparire (loro) veri campioni di "aristocrazia operaia". Ho litigato con loro, cenato con loro, fatto assemblee con loro: bivaccato nei corridoi delle aziende e dei ministeri per giorni interi. Ho dormito a casa loro quando non c'era tempo per andare in albergo e ne ho ospitati a casa mia. Davvero: non credo di sapere cosa sia lo snobismo. Non frequento salotti borghesi  nemmeno intellettuali rsadicali.
Una persona che mi criticava per questo atteggiamento (apparentemente) snob e che è riuscito a farmi cambiare un po’ in meglio, credo, è stato, sembra strano a dirsi, proprio il capogruppo di Forza Italia dell'altra legislatura. È una storia triste perché Enrico, che ho conosciuto quando ho cominciato a fare il Sindaco e quando lui era già gravemente malato, adesso non c'è più. E io ho perduto un caro amico, oltre che un avversario di spessore.
Enrico era un giovane e brillante avvocato: attivissimo e molto sveglio. Un cattolico praticante, di Comunione e Liberazione. Quindi agli antipodi dalla mia formazione (e io dalla sua). Ma pur essendo il capo dell'opposizione, ci siamo presi bene fin dall'inizio. Con rispetto reciproco ma anche (soprattutto) con ironia. Conservo ancora le mail che ci siamo scambiati per un paio d'anni, prendendoci in giro bonariamente. Lui mi diceva: "sarò contento quando ti vedrò sguazzare in mezzo al fango come faccio io (non diceva proprio "fango"): quando metterai da parte quell'aria schifata che hai nei confronti della politica di tutti i giorni". Io gli rispondevo: "io mi metto gli stivali ma tu mi aiuti ad abbassare il livello della melma  che ci circonda (non dicevo proprio “melma”)". Era quando mi sentivo oppresso dalle cattive abitudini della politica consociativa, degli scambi continui, della contrattazione senza fine con tutto e con tutti, che si praticava quotidianamente per avere i voti favorevoli della maggioranza e una "benevola" opposizione dalla minoranza.
Con lui invece le cose si misero bene fin dall'inizio: si giocava entrambi a carte scoperte. Dove si era d'accordo e dove no. E nacque un'amicizia forte: rispettosa delle diverse visioni delle cose ed Enrico era uno dei pochi (forse l’unico) che la mia segretaria faceva entrare nel mio ufficio in qualsiasi momento, senza preavviso.
Quando mi arrivò la telefonata che Enrico non ce l'aveva fatta a superare l'ultimo attacco del suo male io e mia moglie Eileen eravamo a Copenaghen, diretti a Oslo, per un incontro ufficiale importante con l'ambasciatore italiano in Norvegia. Tornammo indietro. Mi scusai al telefono con l'ambasciatore Mochi Onori e tornammo immediatamente indietro. In Consiglio comunale, quando l'abbiamo commemorato, l'opposizione mi ha ringraziato per quel "segno di rispetto" nei loro confronti. Ma era un ringraziamento non necessario: non avrei potuto immaginare di fare altrimenti.
Una sera, a un confronto con i cittadini, in una circoscrizione di quartiere dove andiamo a sentire cosa pensa la gente (gli assessori ed io) almeno due o tre volte l'anno (il che vuol dire una ventina di assemblee, perché le circoscrizioni sono 8) un signore se ne è venuto fuori con una frase che mi è molto piaciuta. "Abbiamo capito che lei è un Sindaco non invasivo". Ecco: a me pare il modo giusto di descrivere un metodo che cerco di portare avanti a fatica: coordinare, ascoltare decidere e delegare. Credo che ci sia bisogno di tutti per governare bene e non ho pulsioni, come dire, presidenzialiste. Mi piace coinvolgere gli altri: che vuol dire prendersi  la responsabilità anche di quello che gli altri fanno. Diffido dei sindaci televisivi.
La sera della vittoria alle elezioni (della seconda vittoria), alla televisione locale la speaker mi ha voluto fare un rimprovero. "Sindaco, ha vinto. I suoi cittadini l'hanno eletta per la seconda volta: è segno che credono in lei. Perché non si concede un po’ di più? Perché non si mostra più spesso? C'è chi le rinfaccia di non vederla mai nei bar. Sindaco, si dia di più ai suoi concittadini, che le vogliono bene".
Giuro che solo l'euforia della vittoria mi ha impedito di risponderle male. Le ho sibilato a raffica: "Non credo che i cittadini vogliano ancora un Sindaco che finge di essere amico di tutti e dà pacche sulle spalle nei bar del centro". Sottinteso: "come faceva il mio predecessore". "Mi hanno votato perché vogliono che amministri bene e che realizzi il programma: è quello che intendo fare. Fingere di essere tutti amici non c'entra niente". Vi chiederete: “ma perché uno ha questa opinione così rigidamente separata tra ruolo e persona, tra status pubblico e vita privata?” La domanda è buona e la risposta è semplice: per non abituarmi male. Non credo di dover svolgere una missione di amichevole conciliazione con tutti: credo di dover realizzare un programma di governo che contiene delle scelte anche impopolari. E poi, sono convinto che i miei concittadini apprezzino di più la sobrietà e la non invasività e che non gli piacciano le dichiarazioni di amicizia che suonano false. Lo so perché li conosco bene: conosco la loro riservatezza e la loro (apparente) freddezza. Perché sono fatto come loro.

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